Alessandro Sala - Le Sfide della Conoscenza

Le Sfide della Conoscenza – Alessandro Sala

Le sfide della Conoscenza.

Alessandro Sala è un fisico sperimentale, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche. La sua specializzazione è la fisica delle superfici e nel suo laboratorio investiga sulle proprietà di superfici funzinoalizzate attraverso nanostrutture create con materiali a bassa dimensionalità e con molecole metallorganiche.

Le sfide della conoscenza: a tu per tu con Alessandro Sala.

Faccio un passo indietro.

Quando nel 2019 detti alla luce il mio libro fotografico “Černobyl’ – 30 anni dopo”, chiesi ad Alessandro di scriverne la prefazione.

Ero per lavoro all’ospedale di Udine, su una terrazza che – se la memoria non mi inganna – era posta sopra il parcheggio per disabili del nosocomio friulano.

Agosto, caldo liquido.

Il cellulare bolliva mentre aspettavo di prender la linea.

«Sandro, senti. Sto per far uscire il mio libro su Černobyl’, ti andrebbe di scrivermi la prefazione?» chiesi in tono speranzoso.

«Urca, che onore!» rispose.

Onore: per lui! Mi sembrava davvero incredibile!

Aprile 2023. Nemmeno il tempo di poggiar la valige da un tour europeo con i suoi Rhapsody Of Fire, che prendo nuovamente in mano il telefono.

«Sandro, prima di ripartire per la seconda parte del tour, hai tempo per un caffè e un’intervista per il mio blog?»

Due giorni dopo face to face, caffè e brioches al cioccolato.

Alessandro Sala per me è questo: una persona dalla mente enorme, ma dal cuore ancora più grande.

Le nuove sfide

Senti, Alessandro, direi che possiamo iniziare a parlare della situazione generale della scienza nell’anno domini 2023.

Diciamo che, da un certo punto di vista, ultimamente si è scoperta un bel po’ di polvere sotto al tappeto che solo gli scienziati conoscevano. La metto molto semplice: per un buon 90%, chi fa lo scienziato in realtà svolge un lavoro da “operaio”, perché è venuta a mancare la visione generale della scienza. La tendenza, da qualche anno, è quella di studiare un po’ tutto quello che passa al convento per poi aver la possibilità di produrre articoli e spingerli in tutti i modi per farsi pubblicare.

Parliamo quindi di una vera e propria inflazione di testi e ricerche scientifiche?

La situazione è questa: il numero di persone che scrive articoli di carattere scientifico è elevatissima, quindi per farsi pubblicare lo scrivente deve imparare a vendersi al mercato.

Come lo fa? Enfatizzando l’articolo per renderlo migliore degli altri in modo da convincere gli editori e i reviewer che il suo progetto, il succo della sua pubblicazione, in un futuro prossimo avrà un certo valore tecnologico. Semplicemente marketing.

Ma per capire questo bisogna capire nello specifico come è composto un articolo scientifico.

Una pubblicazione si compone di 3 elementi: prefazione, corpo e conclusione. Nel corpo dell’articolo c’è poco da discutere: è il fulcro del lavoro. Ma nella prefazione e nella conclusione devi possedere l’arte molto particolare del saperti vendere.

E non pensare che questa sia una novità: io stesso, durante il mio dottorato di quindici anni fa, ho fatto dei corsi per imparare a scrivere in maniera efficace i miei testi. Risulta quindi come una logica conseguenza che in tempi come quelli attuali, quando la scienza si prende le luci della ribalta, si abbia la sensazione di essere sempre al cospetto di scoperte clamorose quando si leggono molti testi scientifici. Semplicemente perché chi legge si ferma, spesso, ai messaggi messi in bella mostra nell’introduzione. Ci vuole un bel po’ di pelo sullo stomaco per andare al leggersi i corpi delle ricerche con il giusto senso critico…

Era Covid19

Faccio un esempio legato al Covid 19, prendilo cum grano salis: uscì un pezzo su Nature se non ricordo male, proprio nel bel mezzo della pandemia. Nell’articolo veniva riportata una tesi dei “super vax” che certificava la naturalità del virus al 100%

Conoscendo bene il linguaggio degli scienziati decisi di leggermi tutto il materiale disponibile. Quello che in realtà riportava l’articolo era che la mutazione genetica del virus non era ottimizzata. In poche parole spiegava che se il virus fosse stato fatto in laboratorio lo si sarebbe creato in modo diverso, e quindi che il virus era a tutti gli effetti naturale. Il punto topico dell’articolo, che è riassumibile in tre righe di numero, era contenuto nel corpo della ricerca. Ma visto che lo si voleva la vetrina su Nature e quindi spingerlo all’attenzione di chi sceglie cosa pubblicare, lo si è messo anche nelle altre parti del testo, impedendo così a chi leggendo si perde nei meandri dei tecnicismi di avere un quadro generale più ampio.

Siamo in un’epoca in cui non si ha una rivoluzione scientifica come agli inizi del secolo scorso, dove a fare ricerca erano in quattrocento in tutto il pianeta e ogni scoperta era veramente una cosa sensazionale. Nel lavoro dello scienziato, quindi, ci dev’essere una particolare attenzione nell’esposizione dei risultati, a quello che si dice, affinché un sacco di “se” e di “ma” non vengano intesi dai non addetti ai lavori come dati veri, creando così degli equivoci mostruosi.

Equivoci che, se uno scienziato legge un altro scienziato, molto probabilmente verranno sgamati subito, perché nella comunità scientifica si è usi mettere sempre in discussione il lavoro degli altri. Ma il problema diventa pericoloso quando questi equivoci vengono assimilati da persone comuni, gente che non è abituata a mettere in discussione articoli come, ad esempio, quelli di Nature. Danno per scontato che questi siano la “Bibbia” e non si fanno altre domande.

La cultura del dubbio

Io ho avuto la fortuna di aver avuto un supervisore di dottorato uno degli scienziati più grossi al mondo di catalisi, Hans-Joachim Freund, che pur avendo rischiato di aggiudicarsi il Nobel non ha mai pubblicato né su Nature né su Science.

Quello che mi diceva spesso era che in media un articolo su tre pubblicato nelle grandi riviste è sbagliato. E parlava esclusivamente degli articoli che erano di sua competenza.

E per dire questo si è messo in gioco: ricordo che spese tre anni di vita e di lavoro per confutare un articolo di un collega di Monaco pubblicato su Nature. Mobilitò finanche gli specialisti nucleari per avere una particolare fonte di neutroni adatti al suo esperimento: ma alla fine ebbe ragione lui. E non pubblicò nemmeno una riga su Nature, anche se avrebbe potuto.

Questo tipo di educazione cerco nel mio piccolo di portarla avanti, ma mi rendo conto che questo resta nella sfera delle persone con cui ho maggiormente a che fare, che in fin dei conti son tutti scienziati. E qui sta parte del problema: le persone non si rendono conto che esiste una divisione molto profonda tra gli “addetti ai lavori” e il “grande pubblico”. Le persone però non hanno più l’educazione necessaria a mettere in dubbio quello che trovano nei testi scientifici. Non parlo di educazione tecnica, ma più una impostazione mentale, e solo in questi tempi abbiamo potuto capire quanta polvere ci fosse, sotto questo tappeto.

Quindi è corretto dire che il Covid19 è stato una sorta di spartiacque nella comunicazione scientifica?

Intimamente sì, anche se dobbiamo capire come riuscire a estirpare questa cosa.

Dobbiamo lavorare sulla corretta acquisizione della comunicazione della scienza. Abbiamo troppe persone che si limitano a “fare il tifo” per una tesi piuttosto che per un’altra. È chiaro che in questo contesto devono essere gli stessi operatori scientifici a educare nella comprensione non limitandoci a leggere articoli per capirli solo in parte.

La vedo oggettivamente difficile però, perché il mio pessimismo di fondo ha radici molto lontane. Ricordo che già i miei professori quando ero studente, ci misero in guardia  dicendoci di stare attenti perché, in un futuro non troppo lontano, ci sarebbero stato milioni di persone che avrebbero potuto fare il nostro lavoro.

L’unica soluzione che ci diedero fu quella in primis di scendere a patti con noi stessi e accettare questa realtà, ma nel contempo iniziare già a cercare delle nicchie specifiche di lavoro e di specializzarsi cercando di trovare così le giuste e doverose soddisfazioni.

Ed è stato davvero così e se vuoi ti faccio un esempio pratico.

Questioni teoriche

Da un po’ di tempo sto lavorando su un nuovo tipo di materiale – una lega di boro e fosforo – che ancora fisicamente non esiste. Non so se sarà possibile crearla: è per l’appunto un lavoro di ricerca. Questo materiale, come detto, non esiste ancora, ma in letteratura esistono quaranta o cinquanta articoli teorici di gente che lo ha simulato al computer in tutte le salse e questo come capirai è un numero enorme di prove, troppo grandi rispetto a quello che si sarebbe dovuto fare. Per logica, prima si dovrebbe sintetizzare il nuovo materiale, testarlo e vedere eventualmente come funziona.

Negli articoli però, fatti su modelli virtuali elaborati al PC, trovi già le possibili applicazioni che questo materiale potrebbe avere: cattura della CO2, per creare nuovi pannelli fotovoltaici, un nuovo tipo di chip o di supporto elettronico. Ma questo materiale nemmeno esiste!

Torniamo quindi al discorso di prima: trovi tante di queste cazzate all’interno delle prefazioni e nelle conclusioni di questi testi che servono esclusivamente a indorare la pillola per ingraziarti l’editor che pubblicherà il tuo lavoro. E questo succede davvero ovunque, credimi.

Se poi, sei in un paese come la Cina dove, ad esempio, lo stipendio è basso ma ricevi un extra per ogni pubblicazione, il discorso diventa molto più che complesso e ingestibile. Capirai quindi come funziona davvero il meccanismo della pubblicazione scientifica.

E vale per ogni aspetto della scienza: guarda ad esempio alla questione nucleare.

Futuro nucleare

Leggiamo assieme l’intervista di Micol Sarfatti a Roberto Cingolani, pubblicata su “7” del Corriere della Sera del 30 dicembre 2022.

Guarda qua: di fusione fredda ne sento parlare da quando ho coscienza del mondo che mi circonda, facciamo anni novanta, e vedo che da un po’ se ne parla apertamente. Ma la fusione fredda, pronosticata da ottimistici pareri come realtà verso il 2030, porta in sé dei grossi problemi di approvvigionamento energetico sopratutto per quanto riguarda in confinamento di questa enorme energia. È come avere un pezzo di Sole sulla terra in fin dei conti!

Ci sono milioni di problemi tecnici per far partire veri e propri iter di costruzione di reattori così tecnologicamente avanzati. Ogni tanto però, escono annunci sensazionalistici sui progressi dei test tipo: «prodotta enorme quantità di energia negli ultimi test», ma quando un addetto ai lavori approfondisce l’articolo si imbatte subito nella realtà, in cui si scopre che per produrre quella quantità di energia in realtà si è speso cento volte tanto, solo per accedere la macchina per il test.

Quindi mi sento di dire che il futuro nucleare, fosse anche per l’Italia, sarà sicuramente un futuro che passerà attraverso le tecnologie che abbiamo oggi, forse con qualche accorgimento in più.

Pensi quindi che nel futuro italiano ci sarà un ritorno all’energia nucleare? E se sarà così, come pensi che sarà la comunicazione che scienza e classe politica dovrà avere per convincere al ritorno alle centrali nucleari dopo il referendum abrogativo del 1987 e la paura dopo Černobyl’ o Fukushima?

Non credo che la scienza debba essere il fulcro attorno cui far ruotare il dibattito anche perché di scientifico c’è poco da aggiungere. Sulle centrali nucleari sappiamo molte cose, il problema sarà semmai ingegneristico: come smaltire le scorie, che tipo di struttura di confinamento costruire, che qualità di energia offrire al pubblico, quanti gigawatt produrre, eccetera. Ma questo non risolverebbe il problema, non è questa la panacea a tutti i mali. Fare tre o quattro centrali nucleari, se confrontate a esempio con le 19 francesi con una sessantina di reattori (ad aprile 2019) non servirebbe poi molto. Avremmo bisogno anche noi di trenta, forse quaranta centrali per avere uno sbilanciamento del nostro fabbisogno energetico verso il nucleare e questo non accadrà mai.

Ma vedi, io sposterei l’attenzione su un problema a cui ho spesso pensato. Credo che ci sia, in generale, una valutazione del rischio che mi sembra sempre più campata in aria. È solo una sensazione, sia ben chiaro.

Prevenzione e progettazione

Fukushima ce lo ha dimostrato, quando parliamo di errata valutazione del rischio.

I tecnici che fecero gli studi sulla sicurezza decisero, una volta interpretato i dati a disposizione, di costruire un muro a protezione della centrale di dieci metri.

L’onda che si è abbattuta sulla centrale è stata un’onda lunga di più di quindici metri che non ha avuto nessuna difficoltà a sommergere tutto vista l’enorme quantità di moto che un’onda del genere può generare.

I consulenti però non si sono presi le loro responsabilità: hanno solo interpretato i dati che avevano a disposizione. Ed è questo il problema: se spacciamo le previsioni umane per scienza, che è proprio quello che fanno e faranno i tecnici, si andrà incontro a molti problemi soprattutto quando la natura decide di chiamare il bluff. Capisci quanto fertile sia il terreno per far crescere e proliferare equivoci? Qui sembra che tutti abbiano qualcosa da venderti: gli scienziati, i tecnici, gli ingegneri…

Abbiamo parlato fin ora solo di scienziati e lettori. Non abbiamo però messo nel piatto il trait d’union tra le due figure: chi fa informazione scientifica.

Questa è una parte davvero importante.

Qui entrano in gioco e si iniziano a vedere all’opera figure che mettono fiches in posti dove non dovrebbero. A partire dagli stessi scienziati che, quando lavorano nel loro compartimento stagno, nel “tecnico” insomma, sono pieni di dubbi, mentre quando devono lavorare sul “come dirlo al pubblico” sono pieni di certezze. E su questo non penso possiamo fare molto. L’unica via d’uscita, dal mio punto di vista, è quella di generare “anticorpi mentali” in chi legge.

 

Anticorpi per la mente

Il lettore, infatti, troverà sempre all’interno degli articoli carichi più o meno giustificati fatti di propaganda, che servono per insinuare paure o magari solo per enfatizzare passaggi o interessi. La divulgazione scientifica non ha questo scopo e non so nemmeno quanto i divulgatori scientifici si rendano conto del problema. La divulgazione è educazione alla scienza ma spesso l’opinione dell’esperto viene presentato come un monolitico dogma: questa è la colpa, se di colpa possiamo parlare, dei professionisti della comunicazione. Chi comunica per mestiere guarda più all’aspetto puramente giornalistico delle cose, non a quello scientifico, che non prevede nessuna critica. Il pezzo di Cingolani, a esempio, è un articolo scritto coralmente con l’intervistato, non c’è critica, non ha i toni di una Oriana Fallaci al cospetto di Komeini tanto per capirci.

Così facendo risulta tutto più o meno edulcorato, scritto e confezionato a uso e consumo della stampa propagandistica. Non ci sono soluzioni al problema. Qui il tono sensazionalistico che trovavamo nelle pubblicazioni – nella prefazione e nelle conclusioni – torna in maniera preponderante.

Arriviamo al punto che sono i divulgatori a venire da noi scienziati a insegnarci come comunicare.

Non è tutto male, non fraintendermi: saper scrivere è un’arte e imparare a comunicare mi è stato d’aiuto nel corso dei miei studi. Noi persone di scienza siamo abituati a pensare in maniera un po’ astrusa, alle volte, in un modo che per noi è chiaro ma per il mondo potrebbe non esserlo. Prendendo lezioni si assorbono certi modi di comunicare che poi semplicemente usi.

Non è facile distaccarsi da questo spirito propagandistico. Non è facile essere onesti e mettere in dubbio sostanzialmente se stessi, soprattutto quando vedi quello che fanno gli altri e segui la marea.

Dobbiamo educare alla calma e al ragionamento, ma mi rendo conto di quanto difficile sia.

Il culto del pensiero critico

Quello che dobbiamo sovvertire è quel modo sbagliato di assumere la conoscenza, invertendo il trend del momento. Dobbiamo iniziare a remare contro!

Non sarà facile ma, lavorando sulla capacità di comprensione del testo, sulla cura del senso critico, assorbendo i concetti tramite lo studio, duro, serio, solo così potremo iniziare a cambiare questa realtà. Solo attraverso lo studio possiamo iniziare a capire come applicare, ad esempio, il metodo scientifico alla vita quotidiana. Dobbiamo tornare a capire che essere “pro scienza” non significa solo guardare video su YouTube o leggere un articolo su una rivista. Dobbiamo partire dalla comprensione del testo per poi passare alla concettualizzazione di una teoria fino ad arrivare al pensiero pratico che il lettore applica allo sviluppo di quella teoria.

Ma questo è un discorso che possiamo fare anche per i “contro scienza”.

Tutti devono iniziare a scindere i contenuti che vogliono solo generare uno stato di shock nel lettore (o più in generale nel “bersaglio” della comunicazione) dove tutto viene ridotto ai minimi termini per essere digeribile a una platea vastissima, e tornare a cercare l’attitudine verso il mondo, tornare ad essere attivi nel pensiero.

Il senso critico è attitudine al dissenso.

Nel periodo Covid ho visto un numero sorprendente di persone che hanno iniziato a dissentire, a non “bersi” tutto senza farsi domande, indipendentemente dal pensiero verso la pandemia. E questo è un bene. Nel mio piccolo provo a incoraggiare lo spirito critico nelle persone con cui interagisco giornalmente, passando spesso come un rompicoglioni. Ma credo sia importante rinunciare anche a un po’ di socialità per stimolare le persone a darsi da fare. Sono però anche fatalista e di certo non sono qui a portarmi dietro i pesi del mondo, ma voglio comunque dare il mio piccolo contenuto in modo da dire “beh, il mio l’ho fatto, non sono rimasto passivamente a guardare.”

Le sfide della Conoscenza e la scienza globale

Quello che mi spaventa in questo momento è un concetto legato all’università della ricerca e della comunicazione scientifica.

La cosa davvero importante quando si parla di pubblicazione scientifica, è che il lavoro finisca in una di quelle riviste universalmente riconosciute come valide da tutta la comunità scientifica.

Ma noi, cosa sappiamo realmente della comunità scientifica mondiale? Secondo me molto poco. Cina e India hanno attualmente milioni di scienziati pagati a cottimo: questa penso sia una spada di Damocle piuttosto grossa sulle nostre teste, per il discorso sulla qualità della pubblicazioni di cui abbiamo parlato all’inizio. Ma non solo. Quello che mi chiedo, spesso, è quanto in questi paesi da miliardi di abitanti queste dinamiche di buona fruizione della scienza (o anche solo di fruizione e basta) siano reali. La realtà è che non ne sappiamo nulla.

Siamo completamente all’oscuro di tutto tanto da non sapere nemmeno se le persone comuni potrebbero sostenere in minimo dibattito di carattere scientifico. Non sappiamo quanto la scienza sia effettivamente accessibile ma anche quanto la tecnologia sia accessibile, che della scienza è la “figlia”. Questo mi spaventa molto.

Io sono convinto che quando parliamo di mondo sempre più interconnesso, come nell’articolo sul nucleare, si parli in realtà di falsità. Forse, e dico forse, il mondo occidentale è connesso e il mondo occidentale è diventato una minoranza rispetto ai paesi sopra citati.

 

Interconnessi?

Eppure questa interconnessione ci viene presentata come la direzione che sta prendendo il mondo in un contesto, come quello dell’inserto del Corriere della Sera, di competenza quasi aurea. Anche questi sono argomenti da guardare con il giusto spirito critico e chiedersi se la realtà è davvero come ce la descrivono. Facendo saltare di fatto questo tipo di comunicazione unidirezionale dove le notizie sembrano essere cadute dall’alto sarebbe molto più utile per lo sviluppo del senso critico nelle persone. In fin dei conti, succede spesso che quando in un discorso ti presenti all’interlocutore con un po’ più di dubbi rendi la comunicazione molto più aperta, interessante e propositiva. E in questa maniera che l’interlocutore si riesce a fare una propria idea.

Dobbiamo ripartire dai bastian contrari, da chi riesce a dubitare in maniera propositiva e mettere in discussione cose, persone, dogmi e idee. Perché alla fine anche l’esperto in qualsiasi campo può sbagliare, o possa essere schiavo del proprio ruolo nella scienza. Chi mette la pulce nell’orecchio può aiutarci a capire che le cose possono essere molto più complicate di quanto ci viene presentato.

Trovando il coraggio di dissentire e di mettere in gioco le proprie convinzioni non seguendo la logica di chi grida più forte, non essendo un Ultras di una posizione piuttosto che di un’altra, ma con coraggio, coerenza e sopratutto con buone motivazioni.

 

 

Potete leggere di Alessandro sull’articolo di Nature 

Il libro consigliato da Alessandro per accompagnare “Le sfide della Conoscenza”  è “Scienza, quo vadis?” di Gianfranco Pacchioni

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1 thought on “Le Sfide della Conoscenza – Alessandro Sala

  1. Sin dai tempi della scuola bisognerebbe insegnare agli studenti lo spirito critico. Approcciare ogni discussione non in modo polemico ma critico. Un esercizio disciplinare per dissentire con cognizione di causa. Questo renderebbe gli studenti adulti consapevoli. Invece il dissidente è visto come un sovversivo. Complimenti per l’articolo e per l’analisi dettagliata della questione, tutt’altro che semplice questione.

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