Il censimento dei radical chic: ci sono cascato per l’ennesima volta.
Non faccio a tempo di incensare l’ultimo libro letto come il migliore di sempre che, puntuale, ne arriva uno nuovo che mi fa gridare al miracolo.
Dovrei essere più posato.
Il Censimento dei Radical Chic: genesi di una sorpresa.
Sono un lettore compulsivo, lo so, attratto dai libri come una mosca sulla merda. Ma per Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi il discorso è diverso.
Mi ritorna in mente la frase “i grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?” di Ennio Flaiano. Perché con questo libro è successo proprio così.
Comprato quasi controvoglia, infastidito – anzi no, inviperito – dall’immagine di quarta di copertina. Quel “non contiene parole difficili” mi è sembrato un insulto sputato in faccia ai lettori, una bandiera bianca alzata dalla trincea del mondo della cultura, sconfitto senza quasi combattere dall’avanzata arrogante dell’ignoranza dilagante.
«Che insulto, che schifo è questo? Ma dove cazzo siamo arrivati se, per vendere un libruncolo, dobbiamo scriverlo con termini facili a prova di buzzurro? Che gente siamo diventati, noi italiani, alfieri autoproclamati di quella cultura millenaria di cui ci sentiamo portabandiera, probabilmente senza diritto?»
Ero davvero furente, sopraffatto dallo sconforto e dall’incredulità. Non mi presi nemmeno la briga di controllare, tra le pile di volumi della stessa casa editrice (Feltrinelli), se il disclaimer fosse presente su ogni libro.
Nessuna traccia: del mio buonsenso, tanto sbandierato e di cui spesso mi son fatto armatura, nemmeno l’ombra.
Certo, qualche sospetto della mia imbecillità latente l’ho avuto, nella fattispecie quando lessi la nota “i fatti narrati in questo libro accadranno”. Poi, una volta iniziato, non sono più stato capace di fermarmi. 141 pagine lette in meno di un giorno. E la cosa davvero sorprendente che mai mi era successa prima, e che dopo aver letto l’ultima riga del romanzo, ne volevo ancora. E ancora.
L’insoddisfazione mi attanagliò le viscere e fui quasi contrariato per averlo finito così in fretta, fagocitato come fosse un semplice trancio di pizza mangiato in un sol boccone.
Non fu come, ad esempio, per “Il signore degli Anelli”, che tanto mi fece piangere e disperare, dove la conclusione della storia mi è sempre sembrata coerente non solo con la lunghezza dei fatti narrati, ma anche con la consapevolezza che la parola fine fosse giusta e doverosa. E così non successe nemmeno con “Il nome della Rosa”, né con “Il Ritratto di Dorian Gray” o con “Il silenzio” di
Erling Kagge.
Finito il racconto sulla triste vicenda del Professor Giovanni Prospero, morto per aver citato Spinoza, un velo di cupa tristezza si impossessò di me. E ancora adesso, giorni dopo averlo finito, mi sento così: vuoto.
La storia dovrete scoprirla da voi, ne varrà sicuramente la pena, credetemi.
Lasciatemi solo il tempo per una riflessione, una delle tante che il racconto mi ha indotto a fare. Essa riguarda una sensazione, quella sensazione di superiorità che alle volte abbiamo, nei confronti degli altri, avete presente? Quando ci sentiamo meglio di chicchessia solo perché leggiamo Aristotele e non la Gazzetta dello Sport, o quando pensiamo di valere un po’ di più perché amiamo i film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e disprezziamo la plebe che preferisce “Giovannona coscialunga”. Avete presente, vero? Sarà capitato a tutti, prima o poi.
Ebbene c’è una frase, detta da Olivia, l’involontaria protagonista di questo romanzo che si trova a metà strada tra la psicopolizia di Orwelliana memoria e il noir alla Agatha Christie (sì, ho dovuto cercare il nome su Google per scriverlo bene) che mi ha ricondotto alla bestia che sono: “la gente applaudì e Olivia si sorprese che nessuno si fosse offeso. La facilità con cui gli esseri umani si identificano con chi critica invece che con chi è criticato aveva sempre il potere di meravigliarla.”
Immagine perfetta, fotografia minimale di un senso comune che molto spesso manca. Ma mi è servita per chiedermi, una volta tanto, chi sono e chi voglio essere. E come voglio essere. Un modo per riportarmi alla realtà della vita, per rimettere a posto un ego che troppo spesso sconfina in saccente arroganza, di chi si arroga il diritto della superiorità solo perché – a parer suo – se la merita per la qualità dei propri pensieri.
Un libro finito tra le mie mani per caso che mi ha aiutato a mettere in ordine i miei pensieri eliminando un po’ di spocchia, facendomi tornare all’amato e socratico “so di non sapere” a cui sempre tanto aspiro.